Astrologia per intellettuali - ARIETE

Siamo arrivati/e alla quarta puntata della mini rubrica settimanale "Astrologia per intellettuali", dall'omonimo libro di Marco Pesatori. 
Ecco un breve elenco delle puntate precedenti:Capricorno
Aquario
Pesci
Questa settimana ci scorniamo con l'Ariete, che, tra l'altro, sarebbe il primo segno dello zodiaco, segno col quale inizia questo libro e dal quale, quindi, avrei dovuto cominciare anche io. Ma visto che non sono un'astrologa, ho avuto la brillante idea di cominciare dall'inizio dell'anno e quindi l'Ariete ce lo ritroviamo come quarto, ma sappiate che è il primo.

A differenza del Capricorno, che era il mio segno e che quindi mi sono presa la libertà di commentare, da ora in poi mi limiterò a riassumere i punti salienti evidenziati da Pesatori, lasciando a voi il compito di ritrovarvi o meno nelle caratteristiche da lui descritte!
Cominciamo!



ARIETE


(tra gli altri: Charles Baudelaire, Jacques Lacan, Marguerite Duras, Paul Verlaine, Lawrence Ferlinghetti, Cartesio, Erich Fromm, Karen Blixen, Erica Jong, Vincent Van Gogh).

L'Ariete è il primo segno. Di Fuoco.
L'inizio dello Zodiaco, quei primi trenta gradi che siamo soliti chiamare Ariete, simboleggia un'irruzione. Di luce e di vita. Parte la grande ruota, si dà il via a tutto. Ci vuole un'energia enorme, che non vada per il sottile, per rompere il buio infinito ed eterno del segno precedente - i Pesci - dove tutto era possibile, ma dove tutto non aveva preso forma. La ruota non parte in progressione, non si mette in moto lentamente. È piuttosto un'esplosione, il decollo di un razzo, un colpo di pistola. Nulla è modulato, controllato, composto, raffinato, modellato. Tutto è così com'è, immediatamente.
La deflagrazione è cieca. Non c'è coscienza del luogo in cui è venuto a trovarsi, nascendo. Nell'universo non c'è nulla e solo l'Ariete, per primo, lo illumina con la sua apparizione.

L'Ariete parte e va. Da solo. Non si fa rodere dal dubbio. È pura potenza carica di vitalità che non può rimanere lì con se stessa, a prendersi cura di sé, a difendersi in un bunker spaventato dalla vita. È il primo. L'unico. Il solo. Non ha bisogno di compagnia, di parvenze di socialità che coprono la paura e l'insicurezza. Non si piega e non si inchina per ingraziarsi l'altro e non si snatura sull'altare di una norma comune che spengono un'individualità possente, irriducibile.
Non vuole accanto pesi morti, chi è lì solo per farsi trascinare. La solitudine aretina - conquista dello spazio dove ancora l'Altro non appare - è insieme condanna e dimensione ricercata

L'Ariete è muscolare, libero gioco degli impulsi animali, in un percorso di regressione che non si libera mai del primordiale, del primitivo, del primo, del primario, fino al primate-scimmia con una tensione verso il primeggiare, la ricerca del primato, che sancisca il livello più alto del podio da conquistare, ma anche primato come record.

L'Ariete è testa, entra nella vita con la testa, adora il cranio contro cranio e si lancia, abbattendo l'ostacolo più duro. Non ama la difesa del mettere le mani avanti e, come il centometrista sul punto di attraversare il filo dell'arrivo, si butta avanti con la testa, in una ininterrotta postura sbilanciata, che vuole entrare il più possibile dentro, magari anche tuffandosi, senza mezze misure o passi incerti.

All'Ariete appartengono una serie di immensi poeti il cui tema è la lotta tra la luce e il buio, portata avanti con gli strumenti di una forza quasi brutale, che scuote il lettore e lo investe di bruciature lancinanti, istantanee, aggressive. Non si può iniziare questo cammino attraverso le dodici tappe del cerchio zodiacale che con loro: i poeti. La nostra epoca sembra volerli relegare nel marginale, negli angoli nascosti perché incapace ormai di confrontarsi con qualunque barlume di innocenza e di chiarore, con quella verità essenziale e lampante che solo la poesia sa mostrare.


LAUTRÉAMONT (Montevideo, 4 aprile 1846, ore 9:00)

L'opera di Isidore Ducasse, conte di Lautréamont è tra le più sconvolgenti dell'Ottocento, radicale e definitiva, riscoperta e adorata dai dadaisti francesi e poi dai surrealisti, che della sua opera fecero quasi un manifesto del loro pensiero.
Morto giovanissimo, a ventiquattro anni, i suoi Canti sono l'Ariete come puro Es, che sfonda, abbatte, vuole liberare l'immensa rabbia di un senso profondo di inadeguatezza, di solitudine dell'anima e di grande dolore, che vive l'impossibilità dell'affetto negatogli dalla perdita immediata della madre, Jacquette-Célestine, che si suicida l'anno stesso del battesimo del figlio.
Compressione di dolore e di energia che non trova conforto e nemmeno via d'uscita e allora si gonfia dentro, fino a pulsare spaventosamente nelle tempie. Lautréamont soffriva di emicranie spaventose e probabilmente muore di tumore cerebrale nel 1870.

Tutta la sua opera è un canto spaventoso che fa paura a se stesso e al mondo intero, forza infernale che nessuno può governare e che si carica di una valenza aggressiva. La rabbia è Ariete, quella che cova e si amplifica in se stessa se non ha la possibilità di riversarsi, trasformata in amore, in un «oggetto del desiderio» che in Lautréamont era negato in partenza.

Ogni tanto, quando il mio collo non può più continuare a girare nello stesso senso, quando si ferma, per rimettersi a girare nel senso opposto, guardo d'un tratto l'orizzonte, attraverso i radi interstizi aperti nella sterpaglia spessa che copre l'entrata: non vedo nulla! Nulla... salvo le campagne che danzano a turbine con gli alberi e con le lunghe file degli uccelli che traversano l'aria. Ciò mi turba il sangue e il cervello... Ma chi, sulla testa, mi dà colpi, con una spranga di ferro, come un martello che batte sull'incudine? 
(Lautréamont, I canti di Maldoror)

Lautréamont viveva forme di irritazione che spesso palesava senza motivo, come racconta un suo compagno di liceo, e il suo stile è violento, veemente, furioso, disordinato, lacerato e lacerante, con una forza espressiva originale, inattesa, maestosa e prorompente. Il clima è quello di una lucidità furiosa, vertiginosa, del tutto arietina che si è lasciata alle spalle ogni involucro protettivo materno e paterno, per scattare verso la luce, emergere dal un liquido amniotico che compare solo a tratti come memoria, sogno, a volte incubo, spesso come nostalgia di un Femminile, lasciato in ogni caso dietro di sé.

Cercavo un'anima che mi somigliasse e non riuscivo a trovarla. Frugavo tutti i recessi della terra; la mia perseveranza era inutile. Eppure non potevo rimanere solo. 
(Lautréamont, I canti di Maldoror)

L'Ariete è soprattutto passione. Calore di un cuore che è sempre pronto a farsi scintilla, entusiasmo che si accende fino all'esaltazione, senza cercare percorsi contorti e oscuri, senza finire in paludi di acqua stagnante dominate dal silenzio. La Luce che appare è Parola, che squarcia il mutismo di una quiete troppo pacifica per essere davvero viva.



CHARLES BAUDELAIRE (Parigi, 9 aprile 1821, ore 15:00)

Anche Baudelaire, seppur con un destino meno radicalmente drammatico rispetto a Lautréamont, ripropone nella sua opera i temi ricorrenti del primo simbolo di Fuoco, anche se un ascendente Vergine lo porta a rispettare maggiormente la Forma nello scrivere e nel mostrarsi.
Il Cancro Proust, comunque, di fronte alla sua poesia, aveva l'impressione «di qualcosa di strozzato, come un venir meno del respiro». Come sono lontane, qui, le lentezze cancerine, dove la riflessione si scioglie dolcemente al ritmo di una passeggiata a fianco di un torrente. Nell'Ariete non c'è Tempo, il tempo è annichilito, domina la velocità che fa mancare il fiato. Se c'è il minimo sentore di una stasi, di un rallentamento, di un ripetersi dell'identico, si muore.

Ma in mezzo agli sciacalli, alle pantere, alle lincialle scimmie, agli scorpioni, agli avvoltoi, ai serpenti,ai mostri guaiolanti, grufolanti, strisciantidel nostro infame serraglio di vizi, 
uno è ancora più brutto, più cattivo, più immondo!Senza troppo agitarsi, né gridare,vorrebbe dalla terra non lasciar che rovinee sbadigliando, inghiottirebbe il mondo: 
è la Noia! - Occhio greve d'un pianto involontario,fuma la pipa, sogna impiccagioni...Lo conosci, lettore, quel mostro delicato,- ipocrita lettore, - mio simile, - fratello! 
(Charles Baudelaire, «Al lettore», in I fiori del male)

La noia è la sicurezza di punti di riferimento sempre uguali, che nello stesso tempo raggelano la vita, perché non c'è il coraggio di viverla fino in fondo. Ciò che è fermo, fisso, logico, l'Ariete lo abbatte, lo attacca, lo distrugge. La vita è azione, movimento, non può indugiare comoda su se stessa. Ciò che è statico e uniforme è orrore.
Altrimenti la Musa si ammala e la Noia, l'Ennui, diventa l'incubo dispotico e maligno (despotique et mutin) che costringe a tenere la testa sott'acqua. L'Ariete, invece, non può rinunciare a una vitalità che è conquista e movimento, assalto e incursione indomabile. «Io voglio che il mio petto odori di salute / e sia abitato da forti pensieri» (Charles Baudelaire, «La musa malata» in I fiori del male), solo così si può scaldare la Musa venale, il cui destino è la tristezza nera delle sere di neve (durant les noirs ennuis del seigeuses soirées) e solo così può raccogliere la luce e l'oro delle stelle (récolteras-tu l'or des voûtes azurées?). Solo alzando la testa, con una fierezza testarda, incapace di accettare la minima mediazione, l'Ariete può farcela.

O dolore, dolore! Mangia il tempo e la vita,e l'oscuro Nemico che ci rosicchia il cuorecol sangue che noi perdiamo cresce, e si fa forte! 
(Charles Baudelaire, «Il nemico» in I fiori del male)

Come per molti Ariete con l'ascendente Vergine, il Sole di Baudelaire cade nell'ottava casa, quella della morte, dell'oscurità e dell'abisso, dell'autodistruzione e delle forze più potenti e misteriose dell'inconscio. Il cuore qui diventa profondo come un baratro (cœur profond comme un abîme) e la passione lotta con una idea di Forma che si traduce anche in un'estetica dandy a cui il poeta dei Fleurs non potrà mai rinunciare, sempre curato ed elegante anche nel bel vestire. È l'ascendente Vergine che lo spinge nel dubbio, a ripiegarsi in una tormentata lotta tra forma e sostanza, tra la mente che domina e la passione che travolge. Ma i suoi occhi rimangono limpidi e freddi. Non può mai perdere il controllo, tanto meno quando si tratta di tornare ad affondare nelle paludi di quella natura-grembo materno che l'Ariete non sopporta, perché ne è uscito - oltrepassando i Pesci - in maniera definitiva. All'elegia preferisce il dramma, alla delicatezza il ruvido, all'introspezione sottile il malumore che si trasforma in ira, in reazione piena di rabbia.
L'odio è un tonico, una medicina vitale, che esplodendo, non esaurisce del tutto il bisogno di un'atroce vendetta, di una collera che si confonde con la passione, l'amore e il desiderio.
L'opera di Baudelaire è passione (Ariete) e calcolo (ascendente Vergine), luce incandescente che accende il cervello, ma è anche misura, precisione, revisione.
La folgorazione è nello stesso tempo intransigente moralità, mentre il selvaggio non è qui lo spaventoso inquietante di Lautréamont, destinato a fine violenta nelle spire del Male, ma piuttosto ciò che l'uomo civile non potrà mai essere, perso com'è nel suo mondo fatto d'oro ed i buone ragioni. Moralità in ogni caso assolutamente individualista, solitaria, refrattaria a ogni parvenza di socialismo o socialità legale che invece in sintonia con i significanti dell'opposta Bilancia, segno della Legge e della Moralità pubblica.



CARTESIO (La Haye en Touraine, 31 marzo 1596, ore 2:00)

La potenza dell'Es, nel primo segno dello Zodiaco, è tutto. È obbligatorio mettergli un freno, dargli un indirizzo, una linea, altrimenti l'universo intero diventa solo un'unica ininterrotta espansione infuocata e la vita si ritrova sola e spersa senza un minimo orientamento. È così che l'individuo Ariete, per non soccombere ed essere spento dai getti di acqua gelida di un sociale che non può dar via libera all'individualità unica e arbitraria, deve da solo ragionare e darsi una regola. E la regola non può che essere rigida, secca, rigorosa, per far sì che il controllo e l'ingresso nel mondo civile in qualche modo si realizzino.
E allora l'Ariete, può anche diventare razionale. Ma la sua razionalità, comunque, avrà sempre un che di perentorio, di assoluto, di netto, di eccessivo, priva di compromessi.
Se razionalità deve proprio essere, sia quella che a sua volta apre una strada e inaugura la via della Ragione in un modo come mai prima si era visto. In direzione nuova e originale, che dia il via a un nuovo mondo, a una vera rivoluzione.

La natura arietina di Cartesio, traspare già nella giovinezza del filosofo, quando si batte nei tornei di dialettica in cui bisogna ridurre al silenzio l'avversario. Ma soprattutto emerge negli uffici militari che lo portano all'estero, arruolato nelle milizie di Maurizio di Nassau, principe di Orange, e poi come volontario nell'esercito del duca di Baviera. E la passione per la matematica si accompagna agli studi di ingegneria militare; inventa compassi di nuovo tipo, uno dei quali gli permette di dividere un angolo in tre parti uguali e l'altro di costruire graficamente le radici di equazioni cubiche di tre tipi differenti. La matematica è una passione di molti appartenenti a questo segno di Fuoco forse proprio perché, inconsciamente, lo spirito ha bisogno di risposte chiare e definite, di linee di controllo che siano descritte con massimo rigore, con razionalità, appunto, che si ponga come inflessibile baluardo al prorompere di un'interiorità che, lasciata libera, sarebbe dilagante, sempre spinta oltre il limite.
E nella matematica, Cartesio, non trova solo una sorta di guida che non inganna, ma anche qualcosa che diventa passione, totale assorbimento, amore incondizionato e che soprattutto può aprire sempre e continuamente, nuovi campi di indagine.

Cartesio vaneggia di «costruire una scienza del tutto nuova, grazie alla quale si renda possibile risolvere tutti i problemi proposti su un qualsiasi ordine di quantità, continue e discontinue». Un assunto incredibilmente ambizioso, ma, scrive Cartesio, «nel caos oscuro di tale scienza scorgo non so qual luce che mi aiuterà, spero, a dissipare le tenebre più spesse» 
(Discorso sul metodo). La matematica e la scienza sono in partenza visione, comunque passione, meta di una ambizione quasi eroica, con un assolutismo tipico del segno, alla ricerca di una nuova chiave universale del sapere che conduce - arietianamente - a una folgorazione, un'illuminazione interiore improvvisa, la notte del 10 novembre 1619 a Ulm, ricordata da Cartesio con misteriose parole: «X novembris 1619, cum plenum forem Entusiasmo et mirabilis scientiae fondamenta reperirem [...]». Vuole che gli si schiudano i tesori di tutte le scienze, ha il lampo che scopre i fondamenti della geometria analitica, fa tre sogni che interpreta come l'apparizione dello Spirito di Verità, tanto che per ringraziamento fa il voto di compiere un pellegrinaggio di riconoscenza al santuario di Loreto. Incline a meditazioni solitarie con disciplina metodica precisa, è assorbito nel costruire le regulae ad directionem ingenii che all'Ariete, più di qualunque altro carattere, sembrano essere assolutamente necessarie.
Prendevo gusto, soprattutto alle matematiche, per la certezza ed evidenza delle loro ragioni (p. 47), paragonavo invece gli scritti degli antichi pagani che trattano di morale a palazzi superbi e fastosi costruiti soltanto su sabbia e fango (p. 48) E infine, quanto alle cattive dottrine, credevo di conoscere già abbastanza quel che valgono per non lasciarmi ingannare né dalle promesse di un alchimista, né dalle predizioni di un astrologo, né dalle imposture di un mago, né dagli artifizi e vanterie di coloro che fan professione di sapere più di quel che sanno (p. 50). 
(Cartesio, Discorso sul metodo)

Il Discorso sul metodo è considerato il manifesto della filosofia moderna e l'anno della sua pubblicazione (1637) come una data fondamentale nella storia del pensiero occidentale.
L'Ariete Cartesio è autonomia, fede sicura, che affranca la cultura dal sistema teologico e disciplinare della Chiesa e, più in generale, delle forme tradizionali, ridestando lo spirito critico e il sentimento dell'indipendenza (della Ragione) da ogni autorità estrinseca.
L'assolutismo arietino non ha mezze misure: le matematiche sono ideale modello di sapere, le sole tra le scienze immuni «ab omni falsitatis et incertitudinis vitio».
Basta con le energie occulte e le forze animistiche della filosofia del Rinascimento, il sistema omogeneo di masse è privo di qualsiasi determinazione qualitativa e si muove secondo leggi puramente meccaniche, verso una tecnica capace di assicurare all'uomo il dominio sulla natura.

L'Ariete è dogmatico, arbitrario, esige una spiegazione organica e integrale. L'Ariete è uno e la sua Ragione è una, «quae sempre una et eadem manet, quantumvis differentibus objectis applicata». La «cognitio» deve essere sempre «certa et evidens» e l'evidenza è assunta in Cartesio a criterio di verità, forma logica del sapere, senza che si possa ammettere nessuna possibilità del contario, rispettando un «ordre de la géometrie» che lo placa, lo rassicura, lo tiene alla larga dallo slancio troppo appassionato che altrimenti lo porterebbe a schiantarsi o a penetrare nei territori ciechi della follia.
L'Ariete è un Io che parla, che pensa e così si rassicura sul fatto che c'è ed esiste. Siccome l'Io, andando sempre avanti con la postura dello sprinter sul traguardo dei 100 metri non può sapere chi è se non si ferma a ragionare, al «chi sono io?» si dà quella risposta che il segno precedente - il Pesci del dissolvimento dell'Io e dell'indeterminatezza - non poteva darsi, mentre l'Ariete una risposta chiara la possiede: «cogito ergo sum».
Ci sono e sono proprio Io e non perché c'è un Altro che me lo dice, ma perché Io, da solo, dentro di me, cogito.
Penso, dunque sono.
Prima persona singolare.
Assolutamente singolare
.



KAREN BLIXEN (Rungstedlund, 17 aprile 1885, ore 16:30)

Se tutto ciò che è Ariete tende a manifestarsi con uno stile «maschile» (Marte e Plutone in domicilio, Sole in esaltazione, sono tutti pianeti del maschile), la donna del segno non può essere che un'amazzone coraggiosa, battagliera, vigorosa, autonoma, indipendente, decisa, appassionata, a volte tragica regina eroica.
E Karen Blixen la descrive più volte nei suoi libri.

Una giovane Valchiria. Allevata tra le più severe virtù militari, nel vasto e tetro castello di Schreckenstein, unica figlia di un clan di guerrieri. Un giovane angelo incandescente, quasi irrimediabilmente adatto a montare la guarda, con una spada di fuoco in mano, davanti al paradiso dei nostri giovani innamorati [...] giovane, lunga di gambe, con mani grandi e la fronte di una Nike. 
(Karen Blixen, Ehrengard)

L'amazzone caparbia e combattiva vuole essere padrona della propria vita e delle proprie passioni, conquistando l'oggetto del desiderio e l'appagamento del bisogno affettivo d'assalto, senza chiedere, senza piegarsi, con la modalità del Padre. In questo modo, con il tempo, spesso il suo destino è quello di una certa solitudine interiore, o di una solitudine tout court, perché il confronto con il maschile è oppositivo, competitivo, teso verso la prova di forza più che all'abbandono morbido e magico al potere del femminile. Il femminile, scambiato per qualcosa di debole e passivo, viene rifiutato e di conseguenza anche il maschile, a esso collegato, risulterà spesso violento e inadeguato.
L'energia arietina estroversa e bollente, anche se si controlla e si sforza - come ogni tanto fa - di adeguarsi ai modelli tradizionali, rimane indomabile, schietta, tesa all'azione più che all'ascolto ricettivo di chi tenta di conquistarla.
Il primo libro di Blixen, si apre con una devastazione e le prime due donne che compaiono nella sua opera sono decisamente arietine.
Quantunque nel pericolo serbassero la più grande dignità, le due donne davano tuttavia un'impressione di selvatichezza [...] Ai salvatori pareva di aver raccolto nella barca due tigri, una vecchia e una giovane: e se la tigretta sembrava del tutto selvaggia, l'altra, per il suo stesso aspetto addomesticato, era ancora più pericolosa. 
(Karen Blixen, Sette storie goriche)

MARGUERITE DURAS (Gia Dinh, 4 aprile 1885, ore 18:00)

Anche nello stile secco, essenziale, diretto e spoglio della dura Marguerite Duras, ritorna di continuo il tema della solitudine, del coraggio tragico e della temerarietà di una donna che fin dalla prima giovinezza si schianta contro un muro senza potersi mai più riprendere.
Presto fu tardi nella mia vita. A diciotto anni era già troppo tardi. Tra i diciotto e i venticinque anni il mio viso ha deviato in una maniera imprevista. Sono invecchiata a diciotto anni. 
(Marguerite Duras, L'amante)

Il muro è la diga che proprio desiderio e incertezza dell'identità femminile travolgono, facendo svanire a se stessa il proprio volto, che non può più esprimere piacere, né tanto meno felicità. La forza della donna-Ariete si ammanta di una ambiguità androgina che non cede e non lascia spazio al potere del femminile, vissuto in una maniera contrastata in un freno raggelante che teme proprio di lasciarsi andare al manque, alla mancanza, all'accettazione del bisogno.

Ma quel giorno non sono le scarpe la nota insolita, inaudita nell'abbigliamento della ragazza. Quel giorno porta in testa un cappello da uomo con la tesa piatta, un feltro morbido color rosa, con un largo nastro nero. A creare l'ambiguità dell'immagine è quel cappello. 
(Marguerite Duras, L'amante)

A celebrare il femminile non devono essere, però, l'apparenza e la forma. La magia del femminile è nell'aderire al vuoto che la connota, spazio infinito che è magnetismo senza fine. Questa equazione non viene risolta facilmente dalla donna Ariete:
Ho già imparato qualche cosa. So che a far bella una donna non sono né i vestiti, né le cure di bellezza, né il prezzo degli unguenti, né la rarità e il valore intrinseco degli ornamenti. So che il problema è un altro, ma non so quale sia. 
(Marguerite Duras, L'amante)

Ciò che manca alla donna Ariete, non è quel potere del Padre che troppo spesso incarna seguendone la via, ma il lasciarsi andare alla natura femminile come come abbandono totale del controllo che oltrepassa il senso di inadeguatezza rispetto alla forza del Padre.
E la soluzione può essere anche esplosiva e scandalosa come quella di un'altra Ariete, Erica Jong (New York, 26 marzo 1942):

Mi limitavo a fantasticare continuamente sulla scopata senza cerniera. La scopata senza cerniera è molto più di una scopata pura e semplice. È un ideale platonico. Senza cerniera perché al momento buono le cerniere cadono come i petali di una rosa sfiorita, la biancheria si sparge al vento come bambagia di un soffione. Le lingue si intrecciano e si liquefanno. L'anima scivola come un sospiro nella lingua e poi nella bocca dell'amante [...] e io volevo proprio la passione [...] e così un'altra delle condizioni essenziali della scopata senza cerniera è la brevità. E anche l'anonimità: l'anonimità è il massimo [...] l'avvenimento ha tutta la velocità e la concentrazione di un sogno e come un sogno sembra libero da rimorsi e sensi di colpa [...] perché non si cerca di razionalizzare; perché non si parla per niente. La scopata senza cerniera è assolutamente pura.(Erica Jong, Paura di volare)

E siamo giunti anche alla fine dell'Ariete.
Ancora una volta confermo che l'attenzione data ai personaggi femminili è sempre marginale e spesso legata all'aspetto sentimentale, cosa che avevo già sperimentato nelle analisi dei precedenti segni. Non so se ci avevo fatto caso già nel 2012, quando lo lessi, ma di certo ci sto facendo caso adesso.In ogni caso, vi aspetto martedì prossimo per parlare del Toro, un segno a me molto caro.

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