Ho
iniziato questo libro molto incuriosita dal battage pubblicitario che aveva
suscitato. Non conoscevo Bret Easton Ellis – persona, e di lui avevo letto solo
American Psycho e Meno di zero.
Non lo seguivo su nessun social, né ero a conoscenza delle sue posizioni spesso
molto radicali, quindi, sostanzialmente, non sapevo quello che mi aspettava e
credo che questo sia il modo migliore per approcciarsi a Bianco.
È
un libro difficile da inquadrare dal punto di vista del genere. Come macro
divisione entra nella saggistica semplicemente perché non si tratta di un
romanzo, ma non si può dire che sia un saggio propriamente detto, nel senso che
non viene esposto un tema scientifico, artistico o antropologico trattato da
parte di uno o più autori esperti nel campo. Del resto, non è nemmeno un’autobiografia propriamente
detta, perché sì, Ellis alla fine ripercorre molti episodi della sua vita lungo
la narrazione, ma ciò che lo interessa davvero, non è raccontare di sé, ma
sostanzialmente chiarire alcune posizioni che lo hanno visto al centro di più
di una polemica su tutti i social da cui ora si è disconnesso. Le sue invettive
hanno come epicentro la società odierna come espressione della Generazione Y o
Millennials: coloro che sono nati tra il
1981 e il 1996, ovvero coloro che hanno compiuto il loro primo od ultimo anno
da teenager (età 13-19) durante il corso degli anni 2000. Invece che Bianco, il libro avrebbe infatti potuto
perfettamente intitolarsi La generazione dei Millennials secondo Bret
Easton Ellis.
Questo,
a mio avviso, è esattamente il punto debole di libri del genere: l’autore non
cerca di provare nessun assunto, non pretende di dimostrare niente, né di
raccontare una storia di fantasia. È una lunga infilata di opinioni personali,
condivisibili o meno, che diventano tanto più interessanti quanta più
autorevolezza il lettore conferisce all’autore. Punto debole perché? Perché è
impossibile, come vedremo, parlare di questo libro senza scendere nel merito
delle opinioni personali dell’autore. Ma forse è proprio quello che Ellis vuole
che facciamo.
Il
leit motiv dell’opera è l’attacco al politically
correct inteso come massima espressione della Generazione Millennials,
quindi ogni tema di cui si compone l’apparato organico del libro – che non
segue, appunto, un criterio cronologico - viene sviscerato attraverso il
paragone con la società in cui è cresciuto e si è formato Ellis, cosiddetta in
sociologia Generazione X (comprendente i nati tra il 1964 e il 1980). Dal modo
di crescere i figli, alla scoperta del sesso, all’avvento di internet e della società della reputazione, all’omosessualità,
alla capacità di reagire alle critiche, alla sensibilità verso le minoranze, al
commercio online che azzera l’attesa e appiattisce l’interesse, tutto viene
affrontato contrapponendo le due generazioni in uno scontro irriducibile
laddove Ellis considera i Millenials degli inetti e la sua generazione l’ultima
in grado di stare al mondo.
Una
delle prime considerazioni, che troviamo fin dall’inizio e che vedremo ripetere
spesso lungo le pagine del libro è quella relativa all’incapacità dei
Millennials di accettare le critiche, soprattutto quelle più accese e
politicamente scorrette. Ellis sostiene che al giorno d’oggi la libertà
d’espressione è solo un concetto astratto, in realtà viviamo in una prigione le
cui sbarre sono il consenso che non vogliamo perdere e per conservare il quale
finiamo per non essere noi stessi, per ammorbidire quello che veramente
pensiamo, preoccupati come siamo a dare di noi un’immagine sempre positiva.
“L’economia della reputazione è
un’idea propria della cultura aziendale, consistente nel farsi piacere tutto
per proteggere se stessi, di risultare falsamente positivi così da non venire
esclusi dal gruppo. Ciascuno continua a postare giudizi positivi nella speranza
di ottenerne a sua volta. Anziché abbracciare l’autentica natura
contraddittoria di noi esseri umani con tutti i nostri difetti, mancanze e
imperfezioni, continuiamo a trasformare noi stessi in robot virtuosi.”
E
l’economia della reputazione è la cancrena secondo la quale, per Ellis, la
politica partorisce le quote rosa, una società come Facebook non implementerà
mai il tasto “Non mi piace” e l’industria cinematografica finisce per far
vincere l’Oscar ai film che più ammiccano al pubblico o rispondono al suo
bisogno di sentirsi migliore. In particolare, per esempio riguardo
alla tematica dell’omosessualità, Ellis sottolinea l’esistenza di una
narrazione della vittima che finisce sempre per far vincere film in cui il/la
protagonista viene emarginato, bullizzato e incarna in tutto e per tutto il
ruolo della vittima. Questo accade, secondo lui, perché abbiamo bisogno di
continuare a sentirci migliori delle persone che vessano il prossimo, in un
delirio di autocompiacimento narcisista.
“Quand’è che la gente ha cominciato
ad identificarsi in modo così rigido con le vittime, e quand’è che la visione
del mondo delle vittime è diventata la lente attraverso cui abbiamo iniziato a
guardare ogni cosa? Perché Moonlight è legato tanto esageratamente al
personaggio di Chiron […] perché, nato povero da una madre tossica e un padre
assente è una vittima dall’inizio alla fine […]. Il regista non arriva a capire
che il nostro interesse per Chiron sarebbe maggiore se in lui ci fosse la
voglia di combattere. Ma al film non importa granché di fare di lui un
personaggio più forte.
[…]
Moonlight ha un gradimento del 98% su Rotten Tomatoes mentre King Cobra arriva al 44%, e la verità sta da qualche parte nel mezzo – nessuno dei due è così bello o così brutto come dicono le recensioni. […] Eppure preferisco King Cobra perché è un raro esempio di film post-gay in cui nessuno si macera perché è gay, nessuno è vittima di bullismo, nessuno si vergogna, nessuno si esibisce in scene strappalacrime e appassionate di coming out e non c’è alcuna sofferenza gay – c’è un omicidio, ma il movente è il denaro. E non è forse questa, nella nostra nuova capacità di accettare vite gay e pari diritti, bianchi o neri che siamo, la visione più progressista?”
Moonlight ha un gradimento del 98% su Rotten Tomatoes mentre King Cobra arriva al 44%, e la verità sta da qualche parte nel mezzo – nessuno dei due è così bello o così brutto come dicono le recensioni. […] Eppure preferisco King Cobra perché è un raro esempio di film post-gay in cui nessuno si macera perché è gay, nessuno è vittima di bullismo, nessuno si vergogna, nessuno si esibisce in scene strappalacrime e appassionate di coming out e non c’è alcuna sofferenza gay – c’è un omicidio, ma il movente è il denaro. E non è forse questa, nella nostra nuova capacità di accettare vite gay e pari diritti, bianchi o neri che siamo, la visione più progressista?”
Considerazioni
come questa, su cui si può essere appunto d’accordo come no, hanno un
indubitabile pregio: ti costringono a vedere le cose da un punto di vista
diverso. In quest’epoca in cui tutti i posti dalla parte della ragione sono
costantemente occupati, è utile foss’anche solo come reductio ad absurdum provare ad assumersi dalla parte del torto e
vedere l’effetto che fa. Chiaramente Ellis è un provocatore e quindi porta la
sua argomentazione all’estremo, sostenendo che andrebbe incoraggiata la messa
in discussione dello status quo riguardo a qualsiasi argomento, come
tappa fondamentale del diventare adulti.
“Ecco il
vicolo cieco dei social: dopo che hai creato la tua personale bolla che
riflette solo ciò a cui tu ti rapporti o con cui ti identifichi, dopo che hai
bloccato o smesso di seguire le persone le cui opinioni o la cui visione del
mondo condanni e non condividi, dopo che hai creato la tua personale piccola
utopia fondata sui valori che ti sono cari, una sorta di folle narcisismo
inizia a deformare quest’immagine così carina. Non essere in grado di o non
volere mettersi nei panni degli altri – non voler vedere il mondo in maniera
diversa da come tu lo percepisci – è il primo passo verso la non empatia, ed è
per questo che così tanti movimenti progressisti diventano rigidi e autoritari
quanto le istituzioni a cui si oppongono.”
Se
mi fossi dovuta basare solo su quello che la mia bacheca di Facebook mi
rimandava, il 4 Marzo 2018 Potere al Popolo avrebbe dovuto prendere il 40%.
Così non è stato. E quanto più ci si scolla dalla realtà per quello che
effettivamente è, quanto più si diventa incapaci di affrontarla e, di
conseguenza, cambiarla.
Nell’approfondita
disamina che Ellis fa della reazione degli elettori Democratici alla vittoria
di Trump, io ho rivisto dinamiche estremamente familiari. Ellis denuncia il
delirio di superiorità morale che ha colto la sinistra portandola a ritenere semplicemente
impossibile la vittoria di Trump con la sola motivazione che era inaudito che
una persona come Trump potesse diventare Presidente degli Stati Uniti. Eppure è
successo. E dal momento che non ci si era nemmeno posti il problema che una
cosa del genere potesse succedere perché solo gli zoticoni e gli ignoranti
avrebbero potuto votare uno come Trump, all’indomani della sua vittoria, i Democratici
sono rimasti completamente attoniti, incapaci di prendere atto della realtà dei
fatti e si sono chiusi in una torre d’avorio invocando la Resistenza attraverso
questi tempi bui dai quali però non sanno come liberarsi. Vi si accende qualche
lampadina?
Lo scandalo, l’indignazione, il
panico e l’orrore dell’Apocalisse Trump erano in effetti solo la manifestazione
dell’essere costretti a prendere atto della bolla da cui proveniva e a
chiedersi imbarazzati com’era stato possibile che fosse andato tutto così
storto.
È
un libro difficile da digerire. E non sono minimamente entrata nel tema questione
femminile (che ovviamente Ellis non si esime dall’affrontare) proprio
perché la considerazione generale sottesa a tutto il libro è vera: è difficile
cambiare prospettiva. Intendiamoci, io non sono nemmeno del tutto certa che su
certi capisaldi della propria visione del mondo si debba poi cambiarla
permanentemente, questa prospettiva, però è sicuramente una palestra
d’immedesimazione utile durante le discussioni o quando non ci capacitiamo
assolutamente di come qualcuno possa pensarla diversamente da noi.
Concludendo, il libro mi
è piaciuto molto non tanto perché condivida tutte le opinioni di Ellis, quanto
perché ho accettato la sfida che implicitamente propone e credo di averne
tratto una bella lezione.
Per questo ne consiglio la lettura senza ombra di dubbio.
Vi farà arrabbiare, ma ne vale la pena!
Vi farà arrabbiare, ma ne vale la pena!
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