Epepe - Ferenc Karinthy

Epepe
Ferenc Karinthy

GENERE: Romanzo distopico

PAGINE: 217

PRIMA EDIZIONE: 1970

CITAZIONE:  "Odiava quella città, la odiava profondamente perché gli riservava solo sconfitte e ferite, lo costringeva a rinnegare e a cambiare la sua natura, e perché lo teneva prigioniero, non lo lasciava andare, e ogni volta che provava a fuggire lo ghermiva e lo tirava indietro."

IN A NUTSHELL: E' un libro che disorienta. Consigliato per chi vuole perdere tutti i punti di riferimento per un po'.

VOTO: ⚫⚫⚫⚫⚪


Scritto nel 1970, il romanzo è una distopia con atmosfere kafkiane, che a tratti ricorda anche qualche opera di Saramago.
L'espediente letterario che dà l'impulso al racconto è quello di un errore di destinazione durante un viaggio: il protagonista atterra per sbaglio in una città sconosciuta, nel descrivere la quale l'autore ci mette davanti ad un'umanità che non comunica, ripiegata su se stessa, individualista e profondamente egoista.

Budai, linguista ungherese e conoscitore di moltissimi idiomi, tra lingue attive e morte, deve partecipare ad un convegno di linguistica ad Helsinki, ma qualcosa va storto durante il suo viaggio ed egli catapultato in una città (o forse un Paese? Una regione?) di cui non conosce l'ubicazione geografica, né riesce a riconoscere la lingua. E malgrado le sue approfondite conoscenze specialistiche, non riesce nemmeno a risalire a che gruppo linguistico arcaico potrebbe appartenere l'idioma di quel luogo che gli sembra solo un "blaterare confuso". Non riesce a capire se si tratti di una lingua alfabetica, sillabica o basata sugli ideogrammi, non ha alcun successo nemmeno nel tentare di isolare la minima unità fonetica per cercare di ricostruire un alfabeto con cui cominciare ad orientarsi.
E quel che è peggio, apparentemente gli abitanti di quel luogo non parlano nessun altra lingua a parte la propria. Budai tenta con tutte le lingue che conosce, dalle ugro-finniche a quelle del ceppo germanico, dalle lingue romanze al latino antico, parla loro in greco, tenta con il cinese e il giapponese, ma non ottiene nessun risultato.

Ma anche al netto del problema linguistico, l'organizzazione di quella società sembra essere al limite della follia. Fiumane di persone si accalcano e si riversano sulle strade ad ogni ora del giorno e della notte, anche i vicoli della città sono intasati e c'è fila dappertutto: per comprare il giornale, per depositare la chiave dell'albergo, per mangiare in una tavola calda, ore di fila ammassati uno sull'altro. Il cielo è sempre plumbeo e l'aria molto pesante, probabilmente a causa delle colonne di macchine in fila su ogni strada in ogni direzione.
Tutti sembrano sempre di fretta e nessuno ha interesse a fermarsi ad aiutare il povero Budai, straniero in una terra così inospitale, e quei pochi che si fermano, si spazientiscono dopo pochissimo tempo dei suoi vani tentativi di farsi capire e lo abbandonano, senza scrupoli.

Solo Epepe (ma potrebbe essere anche Edede, o Etjetje, dal momento che Budai a malapena riesce ad articolare i suoni di quella lingua bislacca), la manovratrice dell'ascensore dell'albergo dove alloggia Budai, sembra volergli essere di qualche aiuto, improvvisandosi insegnante di lingua e tentando, su pressante richiesta di Budai, di trasmettergli qualche nozione minima cosicché egli possa tentare di andarsene da quel posto e tornare alla propria casa. Non potendo comunicare in nessun modo con gli abitanti, infatti, ogni tentativo di fuggire da quel posto, è destinato a fallire.

Le settimane passano, ma Budai, cocciuto e perseverante, non perde mai la speranza di riuscire prima o poi ad andarsene da quel luogo infernale e ritornare dalla moglie e dal figlio piccolo, che immagina in grossa apprensione per lui.
E quindi ogni giorno si cimenta in qualcosa di nuovo, dall'esplorazione della città in cerca di una stazione ferroviaria, all'ispezione disperata di ogni corso d'acqua per studiarne la direzione e sperare di raggiungere, prima o poi, il mare, simbolo di libertà e possibilità.

Il finale, che non vi svelo, mi ha lasciato l'amaro in bocca e un forte senso d'impotenza.

E' un libro angosciante, potentemente metaforico che porta alle estreme conseguenze il racconto della solitudine. Dell'essere straniero a tutti, solo, ignorato, in una società violenta, sempre di fretta, sempre in movimento, incapace di comunicare con l'esterno, con il nuovo, con il diverso, ma attorcigliata su se stessa, confinata a guardare per sempre solo il proprio ombelico annientando tutto ciò che non si inserisce perfettamente nell'armonia distorta di quei giorni tutti uguali a se stessi.

Forse non è un libro primaverile, ma sebbene l'argomento non sia tra i più leggeri, si legge abbastanza bene, la prosa è piuttosto scorrevole.
Non leggetelo quando state programmando un viaggio, il rischio paranoia è molto alto! 


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