A volte mi
dimentico che esisteva un mondo ante internet e ante smartphone. Ogni volta
passa sempre un po’ più di tempo tra una volta e l’altra in cui mi rendo conto
che c’era un prima, periodo mitico e osannato come il migliore dei mondi
possibili, così come tutto quello che sa di vecchio.
Mi chiedo se
me lo dimenticherò mai del tutto.
Se arriverà mai il giorno in cui non mi
ricorderò davvero più com'era prima.
Se assottiglierò gli occhi, assumendo la
classica espressione di chi fatica a far riaffiorare qualcosa alla mente, e
mi sforzerò di rievocare la sensazione
di tenere una penna in mano e scrivere una lettera …
Mi chiedo spesso quale sarà la mia madeleine, un profumo, un’esperienza
tattile, o la vista di qualcosa che mi faccia viaggiare all'indietro nel tempo.
Sono belli i
ricordi inconsapevoli.
Siamo tutti
pieni fino al midollo di ricordi che non ricordiamo di ricordare.
Ci deve essere tipo una sezione del cervello dedicata solo a tutta la roba che abbiamo stoccato e
immagazzinato e che però non necessitiamo di ricordare quotidianamente in
maniera consapevole e che ci ritorna alla mente solo sotto specifiche
sollecitazioni.
Recentemente
ho preso un aereo dall’aeroporto di Malpensa.
Ci ho
lavorato nel 2006, da Maggio a Ottobre, più o meno.
Era sette
anni fa.
Ed era da
allora che non ci mettevo piede.
In parte per
caso, in parte no.
Ebbene se fino
a prima di ritrovarmi lì mi avessero chiesto di descrivere il piano delle partenze
dell’aeroporto di Milano Malpensa a malapena vi avrei saputo dire come fossero
disposti i banchi del check-in, e da dove si scendesse agli imbarchi.
Ecco, nell’istante
in cui ho varcato quelle maledette porte girevoli, in quell’istante io avrei
potuto chiudere gli occhi e camminare al buio sapendo perfettamente come
orientarmi.
Mi è
successo come in quelle scene dei film post apocalittici in cui mostrano le
macerie di quello che era il vecchio mondo e mentre sei lì che guardi quel
panorama distrutto e devastato, piano piano l’immagine scolorisce e vi si
sovrappone ciò che c’era prima, appare lentamente la città con le sue strade
brulicanti di macchine, i negozi, i grattacieli e tutte le luci sbirluccicose…
A Malpensa
io guardavo, ma non vedevo, ricordavo.
E c’era
Amelia che mi sorrideva e mi salutava con quel taglio degli occhi un po' a mandorla e un po' no, e c’era Ilaria che mi ammiccava e mi
faceva segno che ci saremmo viste per pranzo, e Matteo che mi dava il cambio
turno con quel suo zainetto di cuoio sempre sulle spalle, e Alberto che correva
da una parte all'altra perché come al solito si era dimenticato che turno
faceva.
E potevo
seguire il camminare di un paio di hostess che andavano verso la sala mensa, un
paio di colleghi del check-in che guardavano i turni in bacheca e cercavano la
RIT per chiedere un cambio, e potevo sentire quasi addosso il fastidio di
quelle calze obbligatorie anche con 30 gradi all’ombra e quel maledetto
fazzoletto al collo che mi faceva sudare come poche altre cose al mondo, e i
mondiali dell’Italia all’aeroporto perché ero di turno e qualcuno che mi porta
il tubo di smarties alla postazione, e la ragazza napoletana del bar che mi
faceva il caffè con la cremina e un milione di altre cose che non mi ricordavo
di ricordare.
E niente
oggi pomeriggio la mia madeleine sono
stati i miei diari di quando ero ragazzina, le beghe a scuola, gli amori che
duravano una settimana, e tutto un senso d’intatto e di pulito che non ero più
abituata a provare. E in uno dei diari, del 1996, c’erano tutte le dediche di
alcuni amici che avevo conosciuto un’estate
ad un camposcuola. E in fondo a quasi tutte le dediche c’era scritto “Ti
lascio il mio indirizzo”, ed io ho pensato che il mondo di prima era un mondo
un po’ più bello, e che anche se succedevano le stesse cose brutte che succedono adesso…beh almeno c’erano le
lettere.
In quest'era di messaggistica istantanea, di condivisioni in tempo reale, di intere conversazioni digitali la cui memoria è affidata a un potente server magari collocato in Giappone, di spunte singole, spunte doppie e spunte blu, è difficile riuscire a provare ancora il senso dell'attesa.
C'era una sorta di fiducia quasi fideistica quando ci si scriveva le lettere.
Si attendeva, a volte anche settimane, sereni, confidando in una risposta futura, che sarebbe giunta appena possibile.
C'erano tempi obbligati, prima, che cominciavano fin dalla stesura stessa della lettera, che richiedeva riflessioni e correzioni - i più pignoli procedevano addirittura a redigere prima una brutta copia, da pasticciare e correggere a piacere - continuavano con la sua spedizione - bisognava trovare il tempo di comprare un francobollo e poi recarsi in posta - e si protraevano fino al tempo della consegna.
Chiaro, l'immediatezza ha i suoi vantaggi per quanto riguarda le emergenze o le urgenze, ma per quello c'era (se non andiamo troppo indietro) anche il telefono, come del resto c'è anche oggi, ma non lo usiamo quasi più - e mi ci metto dentro per prima.
Con queste chattine non stop, in aggiornamento continuo, abbiamo raggiunto un'evidente sovrabbondanza di parole che giocoforza, soprattutto nei tanto vilipesi gruppi, a volte è carente nei contenuti.
Siamo abituati ad aggiornarci più volte al giorno - preoccupandoci, talvolta, se l'aggiornamento non avviene nei tempi consueti - quando eravamo abituati a stare ore fuori casa completamente irreperibili da chiunque. E non serve andare troppo indietro.
Io, classe '83, ho avuto il mio primo cellulare nel 1999, ossia a 16 anni compiuti, ed ero anche una delle prime della mia classe ad averlo. Ciò significa che fino all'anno prima se uscivo con gli amici ero completamente irreperibile per tutti - genitori compresi - fino al mio ritorno a casa.
Io, classe '83, ho avuto il mio primo cellulare nel 1999, ossia a 16 anni compiuti, ed ero anche una delle prime della mia classe ad averlo. Ciò significa che fino all'anno prima se uscivo con gli amici ero completamente irreperibile per tutti - genitori compresi - fino al mio ritorno a casa.
Con questo non voglio assolutamente demonizzare la tecnologia tout court, difficilmente la colpa è intrinseca al mezzo/strumento, ma ovviamente è dell'uso che se ne fa.
Sarebbe inutile e anche prolisso mettersi qui a elencare tutti gli ambiti in cui l'avanzamento tecnologico ci ha permesso di vivere meglio, perché sono sotto gli occhi di tutti.
Questa mia voleva solo essere una riflessione nostalgica - tanto per cambiare - sulle lettere che poi si è animata di vita propria e vi ha attaccato il pippone (la riflessione eh, mica io).
Alla fine quel che voglio dire è
che anche se mi sforzo tipo tantissimo non so se mi viene in mente una cosa che
c’è oggi e che non c’era prima e che è più bella delle lettere.
La ricerca dell'inizio della canzone che volevi ascoltare (probabilmente delle Spice Girls) su una cassetta. Rigorosamente nel walkman.
RispondiEliminaNo ok, vincono comunque le lettere.