La contraddizione troppo umana del mestiere del libraio



Il dibattito che si è acceso sulla possibile riapertura anticipata delle librerie rispetto al resto delle attività commerciali mi ha stimolato una riflessione che sulle prime si è tradotta in uno sproloquio scomposto e rabbioso su Facebook, che ora cercherò invece di argomentare come si deve.
Sono libraia. Faccio un lavoro meraviglioso. O almeno questo è ciò che mi sento continuamente dire da chiunque scopra che mestiere svolgo. Intorno ai libri e alle librerie c’è come un’aura di romanticismo e magia, leggere è considerata una patente di superiorità morale e le librerie hanno il distintivo di veicolatrici di cultura. Il discorso già qui potrebbe prendere più di una tangente, dall’analisi dell’effettiva superiorità morale dei lettori, al leggere come accrescimento culturale tout court o dipendente dal cosa si legge, ma cercherò di restare sul punto che ruota invece tutto intorno al romanticismo di cui sopra.

Ne sono (stata?) vittima anche io, sia ben inteso. Sono una compratrice compulsiva di libri, lettrice forte, non riesco a resistere alle bancarelle di libri usati (nonostante possa acquistarli comodamente e con lo sconto dipendenti nel negozio in cui lavoro) e l’oggetto libro suscita su di me una suggestione mitica, quasi sacra. Chi mi conosce sa che non sono fra le feticiste che stanno attente che il libro, a fine lettura, non mostri nemmeno il più microscopico segno del passaggio tra le mani del lettore, ma appartengo comunque a un’altra categoria di venerazione dell’oggetto: quella di chi fa della sottolineatura, dell’apposizione di note e dello “smanacciare” il libro che sta leggendo, una gestualità rituale irrinunciabile.
Ho quadernini dove riporto i libri che ho letto e altri quadernini dove riporto le frasi che mi hanno colpita di più, ho un blog dove scrivo recensioni e casa mia esplode di libri. Leggo da che ho memoria di me stessa nel passato; quando ero all'università frequentavo, da cliente, la catena di librerie per cui lavoro, bramando di essere assunta (e alla fine l’ho spuntata) e la parte che preferisco del mio lavoro sono le chiacchierate con i clienti che mi chiedono “Mi consiglia un bel libro?.  
Vi ho fatto questo preambolo per farvi capire da che punto di vista parlo.

Faccio dunque un lavoro meraviglioso in un Paese che però non legge. 
Partiamo dai dati: il sostentamento dell’editoria si fonda chiaramente sui lettori, che in Italia sono poco più del 40% della popolazione (dati Istat aggiornati al 2018).
Ma chi è “il lettore”? Intanto dovrei dire la lettrice, perché a leggere, sono più le donne che gli uomini, ma comunque, l’Istat definisce lettore chiunque abbia letto almeno 1 libro negli ultimi 12 mesi per scopi non professionali (quindi non solo narrativa o saggistica, ma anche guide, ricettari, manualistica tecnica relativa ai propri hobbies, ecc…). Va da sé che con un libro all’anno non si va lontano. E infatti la sopravvivenza dell’editoria (e a cascata delle librerie) è rappresentata da una piramide rovesciata: un manipolo di forti lettori (si definisce "lettore forte" chi legge almeno 12 libri in un anno e la percentuale si aggira intorno al 13-14% di quel 40% che abbiamo visto prima) sorregge la maggioranza sconfinata di lettori “deboli” o non lettori.
Quindi, ricapitolando, in Italia abbiamo circa un 5% di persone che leggono almeno 12 libri all’anno e garantiscono una continuità per gli investimenti editoriali, un 60% di persone che non legge e nel 35% rimanente sta la sfida per librerie ed editori: intercettare queste persone che leggono, seppur poco, e vendergli qualche libro in più.

Come avete visto il discorso si è appena spostato dalla lettura all’acquisto e questo è proprio il nocciolo della questione nonché la contraddizione che ho menzionato nel titolo.
La sopravvivenza di librerie ed editoria si basa sulla vendita dei libri e questo non ha niente a che vedere con la lettura degli stessi. O meglio, è chiaro che le due cose sono collegate, non compro libri per lasciarli per sempre su una mensola a prender polvere, ma sicuramente posso comprare molti più libri di quanti ne legga e del fatto che io li legga o meno, a chi me li ha venduti, interessa ben poco.
Io svolgo il mio lavoro appassionatamente e sono certa che così facciano tutti i miei colleghi e le mie colleghe, ma siamo esercizi commerciali, non biblioteche (e sulle biblioteche tornerò dopo) quindi alla fine del mese devono quadrare i conti. Per quanto tu possa voler promuovere la piccola editoria, il tal autore emergente o uno specifico tema e scelga quindi di mettere nei tavoli all’ingresso una proposta di libri che secondo te veicolano un messaggio culturale o sociale imprescindibile (sempre che lo spazio sul tavolo dove vorresti posizionare la tua proposta non sia stato "affittato" da qualche altra casa editrice costringendoti quindi ad allestire la loro proposta editoriale – di questa e altre amenità del lavorare in una libreria di catena scriverò, eventualmente, in un altro articolo) se quei libri, dopo un periodo di tempo (purtroppo sempre più breve) non hanno un venduto che giustifichi quella posizione privilegiata, dovrai dapprima abbassarne la quantità in giacenza, dopo qualche tempo ancora, spostare la piletta a settore, magari in pedana, provando a dargli ancora una possibilità, ma se nemmeno così partono le vendite finirai per rendere tutte le copie tranne una da mettere di costa a scaffale. E se quel libro non ha venduto dai tavoli all’ingresso, poi nemmeno dalla pedana, venderà forse, invisibile, dallo scaffale, di costa, in mezzo a tutto il resto del catalogo?

Se vogliono sopravvivere, le case editrici devono pubblicare - e le librerie tenere in catalogo - libri che il pubblico voglia comprare. Da questo punto non si scappa con buona pace del romanticismo del mestiere. E qui si innestano tutti gli innumerevoli discorsi tangenti di cui sopra. Leggere è un accrescimento culturale a prescindere? O dipende da cosa leggo? E sono davvero libera/o di scegliere quello che voglio leggere o la pubblicità e il marketing (come per ogni altro prodotto) è in grado di orientare le mie scelte privilegiando, ovviamente, gli editori che possono permettersi grosse campagne editoriali (o sconti - prima dell’ultima legge) rispetto alla piccola e media editoria a cui le grandi catene di distribuzione e vendita offrono contratti capestro per trattare i loro libri?
Con questo non voglio dire che non ci sia speranza, per i libraie e le libraie o per le case editrici, di avere un minimo di libertà d’azione e che noi si sia con le mani legate dietro la schiena a rispondere a capo chino alle leggi del mercato; anzi, lavoriamo appassionatamente proprio per fare strada alle nostre proposte in mezzo alla giungla dei libri che sai che devi tenere perché vendono, però il mercato in qualche modo lo devi assecondare, altrimenti chiudi e nell’equilibrio fragilissimo tra il dover vendere e il voler veicolare cultura, sta tutta la contraddizione del mestiere del libraio.

E finalmente arriviamo al tema della riapertura anticipata delle librerie. 
Perché mi è saltata la mosca al naso? Perché la toccante retorica dei vari appelli circa la riapertura delle librerie che sono circolati in quest’ultima settimana dalle dichiarazioni di Renzi secondo cui “Le librerie curano l’anima” (ma le librerie o i libri?), passando per un articolo del Manifesto a firma di tantissimi autori, dove si afferma che “Questa condizione di lunga cattività domestica avrà bisogno di conforto culturale e spirituale per essere sostenuta senza crepe e scoraggiamento” (e anche qui non si capisce se il conforto culturale e spirituale lo conferiscano i libri o le librerie) fino ad arrivare a numerosissimi post di Facebook di autori e intellettuali sulla stessa linea, confondono il piano della lettura con quello della vendita di libri.
Più onesto è stato Ambrosini, Presidente dell’Associazione Librai Italiani, che ne ha fatto una questione di sopravvivenza economica.
Perché il punto è solo economico, non romantico né, tanto meno, culturale. 
Le librerie, soprattutto le piccole indipendenti, stanno avendo enormi difficoltà a superare questa serrata totale. Come, però, il 90% delle imprese medio-piccole che, se davvero il decreto permettesse l’apertura delle sole librerie, potrebbero alzare la mano e chiedere su che basi il libro può essere considerato un bene essenziale e altre cose no.
E a dirla veramente tutta, se proprio volessimo cedere alla retorica per cui il libro è pane dell’anima (ricordatevi la mia lunga introduzione e sappiate che io vi cedo, fortissimamente) non basterebbe riaprire le biblioteche? Con le stesse misure che si stanno invocando per mettere in sicurezza le librerie, si potrebbero mettere altrettanto in sicurezza le biblioteche. Ingressi contingentati, percorso transennato dall’entrata al banco informazioni, no sosta all’interno, richiesta del libro e poi uscita. Tutti/e potrebbero accedere a quel tanto osannato pane dell’anima gratis. Intrattenersi, illuminarsi, acculturarsi e qualunque altro effetto benefico si voglia associare alla lettura.
Ora, magari Conte mi darà uno schiaffone in faccia e insieme alle librerie (ammesso che lo confermi) aprirà anche le biblioteche, ma non ho visto cordate di intellettuali, scrittori ed editori sperticarsi per richiedere l’apertura delle biblioteche e come mai? Perché non creano profitto.
E badate bene che io non sto dicendo che non si debba tenere in conto l’aspetto economico, le librerie e l’editoria sono due settori in forte crisi da anni, che arrancano per andare avanti e sicuramente una chiusura totale delle attività come quella che stiamo sperimentando è in grado di fare danni irreparabili, ma allora si dicano le cose come stanno: riapriamo le librerie perché stiamo sperimentando fortissime pressioni dall'editoria e dalle associazioni di categoria che ritengono che le librerie vadano salvate perché sedicenti protettrici della cultura del Paese.
Schietto. Pulito. Onesto.
Non questa farsa che peraltro accentua ulteriormente la forbice morale tra gli ottimi lettori e i pessimi non lettori; perché quelli per cui il pane dell'anima è il modellismo? O le passeggiate all'aria aperta? Allora riapriamo anche negozi di modellismo e parchi? Non mi sembra. Anzi, pare che solo chi legge (che peraltro è in minoranza) abbia diritto a ricevere il proprio pane dell'anima.
Siamo sicuri che non serpeggi un atteggiamento sottilmente giudicante, in tutto questo?

Non mi sono volutamente addentrata nel discorso più prettamente medico in quanto non ne ho le competenze e non voglio rischiare di dire sciocchezze. Non so dire, infatti, se queste misure siano adeguate, eccessive o insufficienti e quindi, come per tutte le cose su cui non so abbastanza, mi fido di chi ne sa più di me. Virologi ed epidemiologi continuano a dire che è ancora presto per allentare le misure in atto. Queste misure stanno funzionando e il parere quasi unanime è che vadano prorogate per altre due settimane, tant’è che lo stesso governo si accinge ad estenderle fino al 3 Maggio. Imperversano, da tutti i lati (compreso lo stesso Ministero della Salute) le raccomandazioni di stare a casa, di uscire solo per estrema necessità e ultimamente, almeno in Lombardia, c’è l’obbligo di guanti e mascherina. Non si può andare in due (o più) al supermercato, è stata negata anche la possibilità della famosa passeggiata coi figli, sono stati biasimati gli atleti che volevano allenarsi al parco e viene disincentivata in qualunque modo la circolazione delle persone. In questo scenario, e ripeto che non voglio entrare nel merito della bontà delle misure di cui sopra, ma queste sono, che senso ha riaprire le librerie? Un luogo dove per definizione si va a bighellonare, a passeggiare, a perdersi, a vagare trasognati sfogliando libri.
Aggiungeranno sull’autocertificazione il motivo “sto andando in libreria”? Il libro verrà definito “bene essenziale”? E sulla base di questa piccola breccia, quanti altri esercizi commerciali potranno cominciare a rivendicare la propria essenzialità?
Poi c'è da considerare anche il fatto che non tutti hanno una libreria sotto casa. Anzi, qualcuno deve spostarsi anche di chilometri. Ci sono comuni piccolissimi dove magari non c'è nemmeno una libreria. Quindi come funzionerà? Introdurranno delle deroghe negli spostamenti? La spesa solo vicino casa, ma se vuoi andare in libreria puoi allungarti di qualche chilometro?
E poi ha davvero senso rischiare di mettere a repentaglio la salute di tutti i librai e le libraie italiane, di tutte le persone con cui ciascuno/a di loro è in contatto a casa e sostanzialmente aumentare anche il rischio (per l'aumentata circolazione di persone) per tutte quelle figure che non hanno mai smesso di lavorare come medici, infermieri, dipendenti dei supermercati, farmacisti, ecc...tutto per il sogno romantico di nutrire l’anima attraverso la vendita (e non la lettura, ripeto) di libri? Perché chiaramente le librerie indipendenti, che però sono le più toccate dal punto di vista economico, potranno decidere se riaprire o no (e non sarà certo facile scegliere tra il rischio di contagio e quello di non arrivare a fine mese) ma i dipendenti delle librerie di catena non avranno nemmeno questa scelta.

E tutto questo, per fare un gesto simbolico.

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